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di Rosinella Celeste Lucas
Viaggiare e conoscere. Viaggiare ed assaporare. Questi binomi mi hanno sempre accompagnata nel mio ‘migrare’ terreno; e le mie guide, passo passo, sono stati gli slanciati campanili (quelli modesti, quelli ambiziosi, quelli instabili, ricchi, romanici o barocchi) che mi hanno attratta ed introdotta nei deliziosi paesetti promettenti sorprese meravigliose, nelle loro linee architettoniche, nelle vecchie osterie (ahimè sempre più rare), nei prodotti tipici locali ecc. E queste frecce svettanti nel cielo celeste-grigio del Friuli colpiscono ancora piacevolmente e aprono anche gli scrigni della memoria, che riemerge proustianamente dai sapori dimenticati ed improvvisamente riaccesi, dai profumi antichi, dalle voci dei contadini al lavoro. E’ così che nei miei viaggi ritorno indietro nel tempo: qualcosa si ritrova intatta, qualche altra perduta, ma tuttavia conservata nei ricordi d’infanzia.
Il primo ricordo percepito dai miei sensi è l’odore della polenta che si espandeva per tutte le viuzze dei paesi, verso il tramonto, un odore indimenticabile come di crosta affumicata, a volte dolcino a volte acre, ma che solleticava l’appetito fisiologico e l’appetito del cuore quale odore ‘di casa’. La polenta, per me bambina, aveva tutti i contorni e le forme della Luna. Al mattino (servita abbrustolita fredda nel latte appena munto e caldo) era bianca come la luna di giorno; al pomeriggio era gialla spalmata di lardo caldo o formaggio; certe sere era nocciola chiaro (la cosiddetta polenta di Sarasin) e accompagnava il fagiano, la lepre o la faraona.
Per Natale, l’amico dell’uomo, il saporito, docile, indispensabile maiale, si sacrificava per tutte le famiglie in un cruento, ma necessario rito: “’si còpava‘ l porco”. E, per rendere meno atroce l’atto, si inventavano feste, balli e canti. A noi bimbi davano le “ciciole”, i grassetti fritti che sembravano caramelle. Poi i nonni assaporavano le “martondelle”: fegato fresco aromatizzato con noce moscata, pepe, sale, timo, e legato con una retina, e fritte nello strutto. Ma col fegato preparavano anche “il salame dolce” con cioccolato. La delizia, oltre i salumi, era la “coppa”: una specie di salamone speziato composto dal macinato di lingua e parti varie della testa.
Il prosciutto era profumatissimo, meno dolce dell’attuale San Daniele, e stretto bene nella morsa si tagliava religiosamente con un lungo e stretto coltello, affilatissimo. Dava ristoro nelle sere gelide anche il Bollito delle ossa che venivano mangiate, anzi succhiate con le mani. Per finire, il piatto forte, che doveva sfamare e durare per tanti mesi era il “Musèt”, il cotechino morbido, appena appena granuloso sotto i denti, che accompagnava la “Brovada” (rape messe a macerare nella vinaccia). E questo piatto, mi dicono, sta per essere considerato Dop.
La mia nonna materna era nata a Ronchi dei Legionari, perciò ‘bisiaca’, nome che assumono gli abitanti dei territori che si trovano tra i due
fiumi: l’Isonzo e il Timavo. La nonna parlava bene il ‘bisiaco’ che ben si adattava, per la specificità del dialetto più essenziale e netto d’Italia, ai racconti, alle filastrocche e alle inventate poesiole, che mi raccontava nei giorni di ‘bora scura’… Questa donna, che vide due conflitti mondiali, mi raccontava, come in una fiaba, non senza una punta di orgoglio e coraggio, dei cibi tramandati o inventati per bisogno di sopravvivenza, che lei cucinava durante la Prima Guerra Mondiale, nel campo dei profughi italo-austriaci a Wagna e Graz. Piatto forte, si fa per dire, era lo “Zuff”: una minestra di semolino molto cotto. Poi Risi e bisi secchi. Quando era fortunata (e ciò significava aver raccolto gli avanzi di cucina lanciati da una finestra di un ospedale di soldati italiani), serviva dei Rognoni fritti nello strutto. Le minestre erano condite con un battuto di lardo, aglio e prezzemolo.
A guerra finita ritornò alla classica cucina triestina: la Jota cioè minestra di fagioli, patate, crauti e un soffritto spolverato di farina; la Porcina cioè un misto
di carni di maiale tra cui piedino, testina ecc. con senape e Kren; il Gulasch, fatto con tre tipi di carne: maiale, manzo e cavallo; per contorno i deliziosi Kipfell a ferro di cavallo ottenuti dalla pasta degli gnocchi e poi fritti e serviti salati per contorno o addolciti con zucchero per dessert. E le patate ’in
tecia’ con la cipolla rosolata.
I piatti di pesce erano Sardèle in savòr, profumate d’alloro; zuppa di canoce intere che nonostante ferissero le labbra si succhiavano con avidità; seppie in umido con polenta e baccalà pestato a dovere. A volte la nonna annunciava: Cena dolce! E allora apparivano gli Gnocchetti di susine, insaporiti con pane grattugiato e burro fuso, zucchero e cannella; Riso col latte; strudel di mele; Omelette ripiene di marmellata fatta in casa con pesche, albicocche o ciliegie. Ronchi, all’epoca, era tutto un giardino vasto di ciliegi: alla fioritura si ammirava un doppio cielo di nuvole bianche!
E nella vicina Turriaco un altro cielo di nuvole rosa prometteva il frutto del pesco. Da maggio a settembre la pesca maturava, nelle sue varietà, e ci recavamo in ‘biroç’ e cavallo a farne scorta. La pesca di Turriaco profumava di vaniglia, a volte di cannella e anche della fragrante Rosa Tea, regina del giardino di mia nonna. In casa nostra se ne faceva grande uso: erano 12 le ricette per degustarle quale dessert: dalle pesche caramellate alle pesche all’amaretto infornate; dallo strudel di pesche alla torta con aggiunta di fragoline; dalle pesche sciroppate alla marmellata; dalle pesche ripiene alla crostata; dalle gelatine ai gelati, ai canditi o conservate in sciroppo… ecc. Insomma, quella pesca fa parte ancor oggi della galassia di sapori e profumi d’infanzia, da sognare nell’inverno quotidiano…, sognare nuvole rosa per dilatare il Tempo.
Se era il periodo pasquale, aggiungeva la Pinza, dolce casereccio, di lunga e paziente preparazione dovuta alla elaborata lievitazione, che durava due giorni. Poi, per la gioia dei nipotini, c’era un regalo, quasi un giocattolo: le ‘titole’ o ‘colombine’ fatte con pasta di pinza e lavorate a treccia con uovo sodo incastonato, come un gioiello.
In Aprile, invece, era il nonno a chiamare tutti i nipoti a raccolta. Baldanzoso, felice e orgoglioso, ci metteva tutti a tavola, anche se erano le 4 del pomeriggio, ora di merenda, e di ritorno dai suoi campi di “asparagine”, ci serviva su grandissimi piatti ovali i meravigliosi asparagi con il battuto di uova sode. Gli asparagi bianchi: emersi dalla terra con colore d’alba, saporiti d’aria fluviale, verticali, nobili eppure discreti, elementari, nudi, erano accolti da tutti con l’estatica meraviglia che si prova davanti ad un quasi-miracolo!
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Il racconto è tratto dal libro “Bora e Scirocco” (Edizioni della Laguna), di Rosinella Celeste Lucas, Menzione speciale al Premio “Trieste scritture di frontiera Umberto Saba”. Complimenti all’autrice.
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In copertina, ecco Rosinella Celeste Lucas sul libro “Bora e Scirocco”.